Qui trovate l’edizione integrale del pamphlet “Per cambiare l’ordine delle cose”, ma vi chiediamo di leggerlo solo dopo aver visto il film. Leggerlo prima della visione del film rischia di non renderne chiara la sua funzione.
Il pamphlet è edito con la collaborazione di Banca Etica e la partecipazione di Amnesty International Italia, NAGA, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani e ZaLab
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Tutti i contributi verranno filtrati dalla produzione per evitare la classica confusione telematica in questa pagina. Quelli più seri e non offensivi verranno pubblicati nell’arco dei dieci giorni successivi all’invio.
Io credo sia ugualmente urgente prevedere la definizione di rifugiato vittima di cataclisma naturale e prevedere che i comuni dove vanno a risiedere debbano predisporre corsi di lingua gratuiti in cambio di lavori socialmente utili per un periodo di un anno rinnovabile.
Complimenti per il film “L’ordine delle cose”, un film intenso, al punto di far perdere la parola di fronte ad un problema che confonde e impaurisce, che fa girare la testa per non vedere. I governi europei gestiscono l’emergenza con vari livelli di coinvolgimento (alcuni paesi con livello pari a zero) però manca una “ri-definzione del problema” come lei giustamente scrive nell’introduzione del pamplhlet. Anch’io sono un fisico, come suo padre, e di fronte a questo richiamo alle scienze non ho saputo resistere nel mandarle i miei “pensieri di Pippo”, cioè una goccia nel mare rispetto alla drammaticità del problema.
Spesso nella fisica si cerca di ridurre un problema ad un livello semplificato, per certi versi non reale, con l’idea che possa servire ad afferrare un concetto fondamentale che con le dovute correzioni sia applicabile a problemi più complessi.
Seguendo questa idea propongo di ri-definire il problema dell’immigrazione e dell’accoglienza focalizzandoci sugli italiani! Non è un proclama xenofobo, non è un “prima gli italiani”, ma un invito a prendere come riferimento un insieme di persone che, pur essendo già multi-etnico, presenta ancora uno scheletro comune di linguaggio, di cultura, di diritti e di doveri. E’ uno scheletro sbrindellato, osteoporotico, ma non è troppo tardi per camminarci ancora un po’.
In altre parole: se la classe politica italiana non è sincronizzata con le richieste dei propri elettori come lo potrà essere verso persone provenienti da realtà completamente diverse dalla nostra?
Che cosa servirebbe oggi agli italiani? Un lavoro decoroso, tutele per le famiglie, welfare efficiente, ecc. Se riusciamo a garantirci questo torneremo ad essere un paese ospitale e non solo un paese di transito o di stazionamento forzato. Se invece vengono affossate le aspettative degli italiani che cosa possiamo offrire agli immigrati? Nella migliore delle ipotesi solo un rifugio temporaneo. Se fossi un esponente politico, un sindacalista, un dirigente di un ente previdenziale, mai e poi mai avrei usato il termine “risorse” riferendomi agli immigrati che a vario titolo arrivano in Italia. Gli italiani che sono maggiormente in difficoltà vedono le persone provenienti da paesi poveri come rivali, coi quali dividersi ciò che il sistema di assistenza mette a disposizione per l’alloggio, la salute, l’istruzione. Negli ultimi anni, anche per chi ha la nazionalità italiana, il sistema di welfare nazionale si è decisamente impoverito e l’innesto ulteriore di migliaia di persone non è un processo da affrontare a cuor leggero.
Si dice: “Servono lavoratori per salvare welfare e pensioni”; ma quale tipo di lavoro proponiamo? Ho condiviso per anni l’idea che ci fossero lavori che gli italiani non volessero più fare, quindi mansioni disponibili per gli extracomunitari. Adesso penso che ci siano lavori che gli italiani non vorrebbero più fare alle condizioni che vengono loro imposte. Tanti giovani hanno rapporti di lavoro a partita IVA, oppure lavorano in “cooperative” che servono a garantire costi bassi in attività di sub-sub-appalto. E’ questo il tipo di lavoro da offrire agli immigrati? La tenuta dei conti dell’INPS verrà affidata a coloro che (italiani e non) percepiscono 500 euro al mese? Penso che con migliori condizioni di lavoro per tutti (italiani e non) pagheremo welfare e pensioni per tutti (italiani e non).
Si dice anche: “Gli italiani non vogliono fare figli!” Vogliamo le culle piene ma anche gli extracomunitari si stanno adeguando ai nostri stili di vita e scende il loro indice di fertilità (vedi contributo di Ilvo Diamanti). Su questo tema sembra che in Italia abbiamo completamente rinunciato all’idea di aiutare le famiglie a crescere affidando ad altri la stabilità demografica del paese, come se fosse stato sancito che con gli italiani non c’è più nulla da fare. Anche la laicissima Francia garantisce maggiori aiuti alla natalità rispetto alla cattolicissima Italia, dove la famiglia (tradizionale) viene sbandierata come un vessillo identitario. Penso che con migliori condizioni per tutti si riempiranno le culle di bambini e bambine (italiani o non).
La politica italiana sembra aver abdicato allo status-quo su troppi temi. Dopo infinite discussioni, spesso non si giunge a proposte definite ma si passa avanti, pensando che saranno poi i singoli ad arraggiarsi. Ne è un esempio il welfare suppletivo lasciato a carico alle famiglie.
All’inizio della lettera accennavo alla ricerca in fisica di un concetto fondamentale, attorno al quale ri-definire un problema. Questo concetto potrebbe essere proprio la centralità di una politica che non si rassegna alla situazione italiana, ma prova a risolvere i problemi di tutti quelli che abitano nel territorio nazionale. La maggioranza di costoro sarà italiana ma i benefici ci saranno per tutti.
Ho letto con attenzione il pamphlet.
Parlandone ieri sera con un amico, ci siamo resi conto che il discorso che viene fuori più spesso – in un target compreso tra i 40 e i 50 – è sempre lo stesso: “Io non voglio sentirmi dire che la mia pensione la paga Mohamed, che viene in Italia a pagare i contributi, perché io la mia pensione me la sono pagata da solo”. In attesa che Carlo, 55 anni, capisca come funzionano i fondi pensionistici, l’unica cosa che mi viene in mente, è che si possano favorire gli scambi culturali, che in alcuni piccoli centri sono del tutto assenti. Io vivo in Piemonte, prendendo l’autobus per Ceres mi sono reso conto che esiste una comunità di senegalesi perfettamente integrata. Per uscire dal solito luogo comune, “la gente non ce la fa più”, secondo me potrebbe essere utile filmare e diffondere realtà come queste. Mostrare come la buona politica possa creare integrazione. Io sono convinto che la maggioranza degli italiani non sia razzista; però ha una paura innata verso ciò che non capisce. Parlare di finanza, di grandi manovre economiche, non rende lo Ius Soli più accettabile al cittadino. E poi diciamolo, è tremendo. Sembra che il migrante sia accettato solo in quanto risorsa economica. Io vorrei che le civiltà potessero incontrarsi, capendo quali sono i problemi comuni e quali potrebbero essere le soluzioni possibili. Nei campus auto-gestiti questo già accade. Non pensiamo che la solidarietà umana nasca solo dal bisogno. Per scardinare il razzismo intrinseco in buona parte di questo sistema occorre che la rivoluzione sia culturale, per creare un tessuto coeso, che una volta unito possa ottenere maggiori diritti.
Questo film offre molti spunti di riflessione a partire dalla tematica dell’immigrazione fino ad arrivare alla questione dei diritti umani nel mondo intero. Fin da subito bisogna essere consapevoli che gli immigrati del Sud, o meglio gli africani, sono pur sempre esseri umani come noi. Non bisogna commettere l’errore di etichettarli come profughi e ricordarli semplicemente come numeri di anime disperse nel mare profondo. La società contemporanea ormai non si impressiona più davanti ad una persona morta: i mass media fanno di tutto per accaparrarsi la notizia più appetibile, rendendo la nostra società mortificante, insensibile, inerme. Un altro aspetto emerso in questo film, e anche in Lion (film uscito nel 2016), rappresenta il futuro di queste persone: anche loro, avendo perso ogni cosa, auspicano ad un futuro migliore, ad un percorso di studi, ad un lavoro, per poi tornare nel paese d’origine e rivivere una seconda vita portando con sé il bagaglio del sapere acquisito nel tempo con la speranza di poter riabbracciare di nuovo la famiglia, i luoghi, i profumi e i colori del passato . Questo, perché anche loro sono persone con sogni, ambizioni, aspettative e in cerca di più fortuna. Ovviamente a queste cose si affiancano i diritti umani, emanati nel dicembre 1948, quei diritti fondamentali che dovrebbero aver avuto applicazioni in tutti gli Stati. Questi diritti che avrebbero dovuto rendere il mondo un posto migliore in cui vivere per TUTTI, per ora in gran parte di esso restano solamente dei classici codici messi in vetrina su carta.
Gentili signori,
la visione del film e la lettura del libretto di accompagnamento mi hanno suscitato, tra gli altri, i seguenti pensieri.
1. L’ultima parola del testo di Massarotto e’ “necessaria”. Ci avrei aggiunto: “e, tutto sommato, benefica”.
2. Tutti gli autori dicono cose sagge e condivisibili. Pero’ ritengo che la questione principale, che un lavoro successivo potrebbe approfondire, sia quella indicata in modo sintetico da Baranes: l’economia, il suo rapporto malato con la finanza (che dell’economia dovrebbe essere uno strumento, e che invece domina e guida l’economia stessa, tant’e’ vero che ha creato un’economia cosiddetta virtuale, dove ingenti capitali si generano senza il sottostante) e la possibile strada, oggi praticabile, per uscire da un vicolo che altrimenti sembrerebbe cieco: la finanza etica.
3. Dei vari contributi, mi sembra che il piu’ completo e documentato, quello che mette nella prospettiva a mio parere piu’ corretta la questione “migrazioni”, sia quello di Scego. Questo dovrebbe farci riflettere che anche su questa questione, come su tutti gli altri grossi problemi sociali, bisognerebbe sempre lavorare “con” anziche’ “per”. Per dare risposte valide bisogna porsi le domande corrette, e queste non possono scaturire che da una stretta collaborazione tra gli operatori del sociale e chi quel problema lo vive.
Mi scuso per l’estrema sintesi e vi ringrazio per l’attenzione. Ma soprattutto per il lavoro svolto e per quello che vi accingete a svolgere. Cordiali saluti.
Franco Delben
Grazie, grazie davvero per la possibilità che ci date di riflettere, esprimere, proporre: in una parola “partecipare”. “Libertà è partecipazione”…qualcuno si ricorderà certamente questa canzone di Giorgio Gaber (La libertà). Per me è sempre stata molto importante nei momenti di dubbio e/o rischio di chiusura sociale. Durante la visione del film, anche altre frasi risuonavano in me, distantissime tra loro per contesto di provenienza, eppure, a ben considerare, anche un po’ legate. Il titolo della popolarissima canzone estiva “Tra le granite e le granate”, ad esempio, mi sembra descrivere, in modo solo apparentemente leggero, la condizione attuale delle nostre vite –e ferie!- in questo pianeta sempre più globale, ma che non lo è di certo nella condivisione di destini ed esistenze quotidiane. Esistenze di chi si riscalda sotto un “meritato” sole vacanziero e di chi dal cielo (o dalla terra, o dal mare) si vede arrivare ben altro. Da tempi biblici è così, ma ora tutti sanno tutto… Tuttavia, sapere non vuol dire “intendere” (da in-tendere, tendere verso, volgersi, come intus-legere, leggere dentro, da cui intelligenza). Del resto, proprio la Bibbia lo dice –ed ecco l’altra frase- in uno dei suoi salmi: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono (sl 49)”. Già… durante la visione del film mi sentivo progressivamente soffocare da quel quartiere benestante e anonimo, da quella bella casa, dal suo giardino (quanta acqua necessaria per innaffiarlo!), dalle cose raffinate, messe ognuna al suo posto in maniacale perfezione, da quella bella, perfetta famiglia, realizzata e inserita nella società. Poi il continuo rituale del gioco della scherma al PC e i pasticcini dell’ultima scena mi hanno dato il colpo finale! Tutte ‘ste raffinatezze mentre il protagonista vede atroci ingiustizie, deve prendere decisioni riguardanti milioni di vite umane. Mentre si imbatte in una di queste vite e ne sente il “canto” dall’inferno, il richiamo che gli lancia considerandolo libero, intelligente, ricco e potente, come siamo noi tutti bianchi occidentali, no? Ma che libertà aveva Corrado, dal momento che tutti i suoi beni e i suoi talenti, invece di condurlo al cambiamento, lo riportavano sempre “all’ordine delle cose”? Che intelligenza, se illude una persona, sulla base di un vago quanto passeggero coinvolgimento emotivo (facile portare un “pezzo di plastica” o chiedere ad un sottoposto di organizzare l’eventuale via d’uscita per Sawua), senza valutare la devastazione di un ennesimo fallimento del progetto migratorio in Finlandia? Quale ricchezza, spirituale vera e profonda -quella di un cuore che rientra in se stesso e riflette da una prospettiva di ampio respiro e non ombelicale- e non solo materiale, familiare e sociale? E quale potere, se era solo una pedina di un governo che lo ha usato per fini molto discutibili, pronto a buttarlo via qualora non li avesse raggiunti? Ma perché mi indigno tanto? So benissimo perché: in Corrado, volente o nolente, c’è anche parte di me. Nel mio piccolo (non ho ovviamente il suo livello e ruolo sociale e materiale) rischio di diventare grigia (o beige?) come lui e milioni di altri. A volte mi consolo, pensando al mio impegno in famiglia, nel mio lavoro nel settore socio-sanitario, nel volontariato e in parrocchia. Ma perché non mi sembra più abbastanza? O comunque poco rispetto alle drammatiche disuguaglianze e predazioni dei potenti, crimini che esigono urgenti “restituzioni” di giustizia, rispetto, pace? Una “vita differente” (come definisce Enzo Bianchi la vita “normale” del cristiano), un percorso più radicale ed esigente si affaccia alla mia mente e al mio cuore, chiedendomi una presa di posizione più decisa, scelte di coerenza più tenaci e continuative, lo smascheramento dei mille alibi pronti a frenarmi, un impegno serio alla conoscenza e al dialogo con un mondo “lontano e diverso”, che scopro invece sempre più vicino e familiare. L’altro, in qualsiasi condizioni sia, appartiene alla mia umanità e io alla sua. Siamo un grande dono reciproco (non è un parolone buonista). Se però vogliamo esserlo. E’ una decisione dunque della nostra volontà, in altri termini della nostra coscienza, della nostra anima che ne è la parte tanto più intima quanto più invisibile agli occhi (“L’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva la volpe al Petit Prince).
Ora, cara, fai un esempio pratico per attuare questa scelta. Ok…prima cosa togliere, “dragare” il superfluo (e ce n’è tanto!), le cose inutili, che ci appesantiscono, si accumulano e ci soffocano. Pensiamo a quanto sono piene le nostre case (cibo, vestiario, arredamento, tecnologia, suppellettili, ecc) e vogliamo sempre comprare, comprare… anche il nostro tempo libero ci fa comprare, comprare. E poi puntualmente sprechiamo (energia, acqua, beni, ecc) e buttiamo via…per poi ricomprare! Non dico miseria materiale di vita, ma l’attenzione alla sobrietà mi sembra una dimensione coerente e fattibile, anche se esige uno sforzo quotidiano contro i luccichii consumistici che penetrano ovunque. Ad avere meno si guadagna in salute, diminuiscono lo stress e il “logorio della vita moderna” e si scoprirà di disporre di più tempo e denaro per aderire ad iniziative di solidarietà e progetti di restituzione. A seconda dei talenti ricevuti (ricordiamoci che non ce li siamo dati da soli!) possiamo dedicare energie (e lì si comincia a faticare, ma non moriamo!) per qualcosa di utile. Per restare sul tema delle migrazioni, si parla di accoglienza diffusa (cioè il tentativo di distribuire i migranti in piccoli gruppi su tutto il territorio nazionale e non in grandi concentrazioni, in base a progetti di reale integrazione in accordo con prefetture, enti locali, associazioni di volontariato, cooperative, diocesi, famiglie). Bene, emergerebbero enormi risorse se ognuno mettesse a disposizione, singolarmente o insieme ad associazioni, comunità religiose, scuole, famiglie, comuni, ecc qualcosa di utile per stranieri in difficoltà. Penso ad una stanza, un alloggio sfitto, un lavoro, una collaborazione domestica, un servizio di aiuto per lo svolgimento di pratiche varie, per l’accesso ai servizi socio-sanitari e alla scuola, per l’apprendimento della lingua italiana, ecc. Personalmente, mi sono concentrata a formarmi per l’insegnamento della lingua italiana e ho risposto alla richiesta di tutori volontari dei minori stranieri non accompagnati, in base alla recente legge 47/2017. Lo faccio con gioia e so che ricevo più di quanto dono, come dicono tutti coloro che iniziano a capire da che parte stare. Nasce la consapevolezza, come voi ben dite nel libretto, della responsabilità gli uni degli altri, in una “reciprocità del bene” da cui la nostra umanità non può prescindere…se vuole continuare a sopravvivere. In altri settori in cui sono coinvolta (scuola, volontariato, comunità cristiana) cerco di partecipare e di contrastare gli atteggiamenti di delega che periodicamente tentano di sedurmi. Non è difficile, ognuno lo può fare, migliora il vivere insieme e il bene si diffonde, come è successo in tanti comuni dove si sono fatte scelte coraggiose di accoglienza diffusa, di cui i primi beneficiari sono stati quei comuni stessi e la loro popolazione. Va da sé il valore altamente educativo di tutto ciò per le nuove generazioni, che devono adoperarsi per società veramente interculturali e non solo multietniche.
Il film è bellissimo e rivelatore di una verità scomoda. Una coraggiosa denuncia della vera natura degli accordi che recentemente il nostro governo ha fatto con la Libia. Ho letto il pamphlet ed è molto interessante. Permette di pensare all’attuale fenomeno di migrazione attraverso prospettive diverse. Per quanto ritengo eticamente giusta la proposta di concedere permessi e visti anche a quei migranti che non fuggono da guerre ma che si spostano per cercare opportunità economiche in Europa esattamente come è concesso fare ai nostri figli, mi domando quanto però tale proposta sia sostenibile considerando la realtà economica attuale e la scarsità di possibilità lavorative. Temo che l’arrivo di grandi quantità di nuove persone alla ricerca di lavoro in un momento in cui è così difficile da trovare per gli stessi cittadini, almeno in Italia, produca più che altro nuove tensioni sociali, nuove guerre tra poveri, che andrebbero nella direzione opposta a quella dell’integrazione. Temo che allo scadere degli eventuali visti o permessi dati,moltissime persone finirebbero nuovamente per cadere nell’illegalità formando altre sacche di povertà che è terreno fertile per la criminalità e lo sfruttamento da parte delle mafie locali. So che i fatti dimostrano che la gente si sposta ugualmente, specialmente se è mossa dalla disperazione. Mi domando se siano attuabili delle campagne informative nei paesi d’origine, volte a spiegare ciò che spetterà loro se intraprenderanno il viaggio, specialmente una volta giunti in Libia, e ciò che non troveranno in Europa, cioè documenti e lavoro, in modo da tentare di dissuaderli dal partire almeno per ora. Mi chiedo se sia possibile impedire che altre moltitudini si mettano nelle mani dei trafficanti magari istituendo in Niger e in Ciad campi di raccolta gestiti dagli organismi internazionali dove fare domanda di asilo nei vari paesi Europei, (una volta modificati questi benedetti accordi di Dublino), e magari delle forze armate internazionali che ostacolino le bande di trafficanti di esseri umani fin dall’inizio dei viaggi. Le mie sono domande più che proposte, dettate anche dal tentativo di rimanere razionale e di comprendere sia le istanze e le necessità di chi parte, sia i timori dei cittadini italiani in termini di disponibilità di lavoro oltre che di sicurezza. Paure che sicuramente sono amplificate e alimentate irresponsabilmente dalle destre, ma che a mio avviso hanno dei fondamenti poichè sperimento io stessa che molti giovani che sono riusciti a compiere il loro viaggio e magari anche ad ottenere una qualche forma di protezione, si ritrovano al termine del percorso di accoglienza a non avere nè un impiego, nè un tetto sotto cui dormire. Desidero ora ringraziare chi si è adoperato per questo e per gli altri altrettanto splendidi docufilm di Segre per il servizio che fanno di diffondere e far conoscere le terribili realtà di chi lascia la propria terra. Vorrei che i giornalisti la smettessero di parlare solo delle bagarre politiche , ma tornassero a fare ciò che dovrebbe essere la natura del loro mestiere ovvero la diffusione dei fatti e la ricerca della verità.
Dell’ordine “delle cose” attraverso la norma e del’disordine “delle cose” per tutto ciò che resta fuori dalla norma, ho imparato che ad oggi in Occidente, lo spazio per considerare entrambe le dinamiche, sia praticamente inesistente in funzione di un’unica modalità: quella dell’ordine che annulla la creazione e di conseguenza annienta. Ho studiato recentemente che lo spazio del disordine che riguarda soprattutto l’esperienza come individui, nell’interazione con le strutture sociali, sia stata un’esperienza fondamentale perché portatrice di innovazione e di cambiamento nella storia di quelle “altre culture” attraverso le loro pratiche prima e dopo la colonizzazione.
Oggi “finita la colonizzazione”, e nonostante gli sforzi dell’Occidente nella comprensione di ciò che è stato, la maggioranza delle strategie di fronte alla migrazione, ad opera delle nazioni che ne fanno parte, continuano a disconoscere la capacità di azione di queste donne e uomini indipendentemente dal loro status legale, rappresentandoli solo come soggetti dell’esclusione attraverso il potere produttivo del confine –non necessariamente geopolitico- e del suo ruolo strategico nella fabbricazione dell’Europa di oggi attraverso l’ordine delle “sue cose”. È la risposta che il titolo del vostro film -un film necessario- esprime, di fronte all’essenziale e fondamentale riflessione necessaria di fronte al disordine e alle domande che il fenomeno della migrazione genera nel mondo occidentale e non solo in Europa. La prevalenza del dominio di un ordine sempre generato dagli interessi economici in gioco che dettano le priorità, in questo caso la sicurezza del benessere, attraverso l’efficienza delle proprie funzioni, ha prodotto e produce violenza e può annientare fisicamente ma anche moralmente all’esterno e all’interno dei muri e degli spostamenti dei confini, attraverso la tecnologia a disposizione che contribuisce a plasmare nuove forme di dominio e sfruttamento.
Ogni giorno quel che mi preoccupa di più sono le semplificazioni attraverso le opposizioni, in questo caso riguardanti i migranti, dell’interpretazione binaria della politica nei termini di una semplice opposizione tra inclusione ed esclusione. Cosa fare? Me lo chiedo anch’io e per questo vi scrivo. Ci sono due studiosi S. Mezzadra e B. Neilson che attraverso il loro lavoro sul confine, pubblicato nel 2013, hanno evidenziato la necessità di assumere il confine come “metodo”, per mettere in evidenza le tensioni e i conflitti che vanno oltre la linea tra inclusione ed esclusione, che può consentire di cogliere i codici profondamente mutati dell’inclusione sociale nel nostro presente. Questo punto di vista epistemico può aprire “prospettive nuove e particolarmente produttive sulle trasformazioni che attualmente stanno riplasmando il potere e il capitale: per esempio per gettare luce sull’intreccio di sovranità e governamentalità e sulle operazioni logistiche che sottendono i circuiti globali dell’accumulazione”.
Sono nata nello spazio tra due culture tanto distanti che la storia unì attraverso un’utopia ma la cosa non mi fecce lo stesso sentire parte stabile in nessun luogo. Oggi di fronte alla domanda che spesso mi faccio, sulla base di questo ordine delle cose, e su cosa possano diventare le nazioni all’interno di questi confini, la sensazione che provo è come di vivere anche noi gli “inclusi” dentro una gabbia.
Bellissimo il film. Bellissima questa possibilità di confronto e riflessione lagata al pamphlet e a “L’ordine delle cose”. Grazie. “La risoluzione dei problemi dipende dalla nostra capacità di definirli”: ottima ottica, da fisico e da bravo regista. Allora mi preme dire alcune cose:
1) Occorre partire dalla conoscenza della realtà. Dati, corretta informazione, che vuol dire sforzarsi di rintracciare le fonti e magari, confrontarle con l’esperienza diretta. Io credo che gli immigrati non siano ovviamente tutti terroristi, delinquenti, ma nemmeno tutti studiosi che scappano dal proprio paese per proseguire al meglio la propria formazione personale o ricongiungersi con i propri cari. Dunque la prima cosa da fare e saperne di più di quanto ne sappiamo. A tutti i livelli;
2) Occorre saper individuare le responsabilità politiche ed economiche che hanno comportato e comportano tuttora, lo stato attuale delle cose;
3) Occorre tener presente un aspetto spesso sottovalutato: la differenza culturale. Mi riferisco alla religione islamica. C’è un punto cruciale: l’Islam non prevede la divisione Stato/Religione che la cultura cristiana occidentale ha fatto propria. Non è questione da poco. (Per non parlare della condizione della donna).
4) Occorre dunque essere costruttivi e propositivi (da cittadini e da elettori) in un’ottica di sostenibilità e rispetto dei diritti. Per tutti. Immigrati e popolazioni autoctone. Sostenibilità vuol dire anche tener conto dei numeri, del fatto, ad esempio, che se in un Paese aumenta la quantità di persone sfruttate nel lavoro, poiché più facilmente disposte per necessità ad accettare condizioni lavorative giustamente inaccettabili per un lavoratore occidentale, si rischia un livellamento verso il basso dei diritti per tutti.
5) Bisogna avere il coraggio di guaradre negli occhi il dolore degli esseri umani ma anche lo stato delle leggi, delle strutture di accoglienza, delle periferie delle città occidentali, ad esempio, su cui si scarica praticamente tutto il peso di un problema così complesso.
6) Mi permetto, da casing director, di esprimere tutta la mia contentezza per un ruolo finalmente così, per quel grande attore che è Paolo Pierobon!
7) Grazie di tutto, Andrea Segre, e buon cammino a tutti.
Volevo solo far sapere che quando sono uscita avevo il magone, gli occhi umidi e la sicurezza che avrei fatto come Rinaldi.
Se quindi c’è una strada perché una persona per bene (come di fatto è il protagonista) non si debba sentire così va intrapresa.
Mi chiamo Leonardo, ho 25 anni, sono nato e vivo a Padova. Sono un allievo ingegnere all’università patavina. I sentimenti che ho provato alla comparsa dei titoli di coda del film sono stati amarezza, delusione e scoraggiamento. Non per il lungometraggio in sé, che ho trovato emozionante, girato e diretto magistralmente, quanto per la storia che, in veste di cittadini europei, stiamo vivendo apaticamente e con preoccupante distacco.
Com’è possibile che i nostri governanti stringano accordi in nome del popolo italiano ed europeo con chi detiene il potere al di là dei nostri confini sacrificando la libertà, i diritti e talvolta la vita di donne e uomini innocenti?
Com’è possibile che essi siano così esposti agli slogan dei movimenti populisti (i quali fanno la voce grossa e sguazzano nell’incompetenza di chi è alla perenne ricerca dello scoop) da piegarsi al loro volere?
Chi ha deciso che la soluzione è necessaria perché “non c’è più tempo, la gente è stanca degli immigrati” e non perché “non c’è più tempo, dobbiamo impedire che le persone siano costrette a rischiare la vita per emigrare dal sud del mondo”?
Sento che noi esseri umani, in termini di indifferenza ed egoismo, siamo sempre gli stessi. Anzi forse da un certo punto di vista, rispetto ai miei nonni ad esempio, siamo peggiorati un po’. A partire dagli anni settanta-ottanta del secolo scorso abbiamo un po’ alla volta messo da parte la Politica, la necessità di interessarci alla Politica e di preservare ciò che è bene comune. Non abbiamo coltivato come avremmo dovuto il senso critico, l’importanza della verità, del senso delle parole, della conoscenza.
Perché in questo momento non sono questi i criteri che misurano la ricchezza di un popolo.
Le goffe, imbarazzanti ed estremamente pericolose soluzioni che sono state elaborate per rispondere ai prevedibili flussi migratori e la conseguente strumentalizzazione finalizzata al potere, sono solo uno dei sintomi della nostra “povertà” politica. E questo è un problema nostro, della nostra democrazia.
IERI SERA A MANTOVA HO FATTO LA DOMANDA SUL PRESIDENTE DELLA CEI E MINNITI…
Papa Bergoglio al suo rientro dalla Colombia (ma gia’ nel novembre 2016, al ritorno dalla Svezia) aveva sostenuto “… credo che in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga politicamente; come anche si può pagare politicamente una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare “. Ciò che in entrambi i messaggi del pontefice è comunque lampante, è che per Papa Bergoglio, ben consapevole di quanto la distensione o la contrazione del cuore possa estendere o ridurre gli “spazi vitali”” oggettivamente” disponibili, la sostenibilità del fenomeno migratorio va commisurata soprattutto alle possibilità del Paese che accoglie di integrare migranti e rifugiati…
ACCOGLIERE NON BASTA. NEL SUO MESSAGGIO PER LA GIORNATA DEL MIGRANTE PARLA DI 4 VERBI: ACCOGLIERE, INTEGRARE, PROMUOVERE, PROTEGGERE. NON “NON ACCOGLIERE”, MA “VAI OLTRE”. IO LA VOGLIO CAPIRE COSI’
Aggiungo che poi lui non e’ uno che rettifica o smentisce: basta vedere altre polemiche che sono nate a partire dale sue parole. Lui le cose le esprime chiaramente, e se uno vuole capire capisce, senno’ strumentalizza. Ma e’ colpa sua, non del papa.
Capisco anche la difficolta’ di prevedere tutte le conseguenze di alcune scelte, forse per poca esperienza. Penso all’approvazione del codice di autoregolamentazione delle ONG…
Per concludere: si poteva fare meglio, ma non penso ci sia malizia
Tempo fa, di passaggio per Milano, avendo un po’ di tempo a disposizione ho visitato la mostra del grande Salgado sulle migrazioni. Foto enormi, persone in movimento. Ricordo che seguendo il percorso della mostra mi sentivo in cammino con tutti quei migranti. Ecco, penso che noi tutti siamo questo. E per tanto sento davvero dentro di me questa tragedia che colpisce i migranti di oggi. Tragedia assurda perché è determinata da scelte politiche precise. Non si aprono corridoi umanitari, si chiudono le frontiere alle entrate legali. Ha ragione Igiaba, se sei africano puoi arrivare solo via mare. Mi chiedo sempre cosa può fare ciascuno di noi per fermare questa follia. Purtroppo, lo diceva stamattina Ottavia Piccolo in una intervista, anche chi dovrebbe avere gli strumenti, parla di questo fenomeno in modo superficiale e poco informato. Eppure ci sono film, serie televisive, libri, articoli sulle riviste e sui quotidiani. Ma ci siamo assuefatti alle morti in mare e talvolta mi chiedo se non siamo come quei tedeschi che erano vicino ai lager e fingevano di non sapere. Esiste la banalità del male (il comandante che non attiva i soccorsi quando riceve la segnalazione che un gommone sta affondando, rimandando su Malta quel dottore siriano che la sta supplicando educatamente. Per andare più indietro l’affondamento della Kater i Rades). Vivo tra il Friuli e Roma e mi chiedo che sistema di integrazione è quello che tiene, anche per anni, ragazzi parcheggiati in piccoli hotel, magari al margine del paese, senza coinvolgerli in iniziative ed attività per permettere loro, una volta ottenuto il permesso, di avere una minima conoscenza del territorio per trovare un lavoro. È tutto il sistema che è sbagliato. Grazie davvero per questo film, colpisce la stridente aderenza alla realtà che vede il governo italiano fare accordi proprio con chi, in questi anni di vergognosa assenza di politiche anche europee, si è arricchito con il traffico di esseri umani.
Nel libretto “Per cambiare l’ordine delle cose” che accompagna questo film il regista accenna al fatto che suo padre era un fisico. Ebbene vedendo il film mi è venuto in mente il concetto di entropia. Per mantenere il sistema ordinato, l’ordine delle cose, occorre metterci energia e scaricare il disordine da un’altra parte. Vediamo quindi il protagonista “ordinare le cose”: i vestiti sul letto, la sabbia nelle bottiglie,il tovagliolo sul tavolo. Vive in una casa ordinatissima dalla quale vuole tener lontano il caos. Così vuole la sua vita. Ma a causa del suo lavoro deve avere a che fare con lo scarto, il rifiuto, lo sporco il disordine. Per un momento quasi cede al caos, ma alla fine per mantenere il suo status, per raggiungere il quale ci ha messo un sacco di energia, chiude la porta al disordine che avrebbe portato un gesto di umanità consapevole. Questo è il nostro mondo. Noi stiamo dalla parte dell'”ordine”, del “benessere”,della tecnologia e per avere questo dobbiamo scaricare all’esterno il disordine sotto forma di rifiuto. Rifiuto nel vero senso della parola che contamina aria, acqua, terra e ci avvelena. Ma anche rifiuto umano che rapinato e sfruttato torna a chiederci il conto. Non c’è soluzione a questo “ordine delle cose” se non cambiamo noi. Se non permettiamo che un po’ di disordine entri nelle nostre vite. Se non sarà così allora sarà il caos a invaderci, ad avvelenarci a sopraffarci. Si tratta di abbassare, e di parecchio, il nostro tenore di vita. Siamo disposti a farlo? Se si, forse abbiamo una speranza. Se no, penso che alla lunga l’entropia avrà la meglio.